martedì 2 maggio 2017

Ogni spazio felice - Alberto Schiavone

Ogni spazio felice. Alberto Schiavone. Guanda. 240 pagine. 16,00 euro. 

Voto: 9

Ada e Amedeo sono due solitudini.
Sono solitudini che tentano di ingabbiarsi nella noia e nella monotonia della loro casa, in mezzo al puzzo di sigarette e alle bottiglie di vino vuote. La morte dell’abitudine, mi viene da pensare, dopo aver letto il romanzo di Alberto Schiavone, “Ogni spazio felice”. E io la odio, l’abitudine.

“Deve esserci da qualche parte del cervello una zona infingarda e accondiscendente che impedisce ogni reazione, in favore della continuità.”

È il romanzo che ti fa credere che tutto nella vita procede come appunto deve andare; non c’è modo per i protagonisti di ribellarsi, la loro esistenza non glielo permette. Buffo e crudele al contempo. 
Ada si accascia nell’alcolismo più bieco, dopo aver perso il figlioletto per uno strano e infantile scherzo del destino.
Amedeo al contempo si perde nelle sue storie ad occhi aperti, vano tentativo di fuga dalla realtà priva di ottimismo e carica di tensione.
Sonia, la figlia della coppia, appare quasi richiamata dalle fila di un deus ex machina per ravvivare le già abbondanti preoccupazioni paterne.
Da sfondo, una Milano grigia, nera, quella interrazziale, quella che incrocia Via Padova e si snoda per Piazzale Loreto alla ricerca di un uomo quasi padre fuggito, anche lui, come Ginevra, la gatta della coppia.
Ecco.
Sono loro gli unici due fuggiaschi che riescono ad andarsene via.

E allora trascorre così la settimana dei due coniugi. Nella chiusura più stagna possibile. E nell'infelicità.

«È infelice?» 
«Con parsimonia.» 
«Allora va bene. È accettabile.»

Sarà che sono contro il rimanere in una vita che non è più vita e accanto a chi ci fa solo soffrire, scrivevo ad Alberto nel giorno che ci è voluto per terminare il romanzo.
Sarà che nonostante ciò, ritengo sia un libro che faccia male, di una tristezza esagerata, e che tale parere debba però essere letto positivamente, perché fa bene leggere un romanzo così.
Fa bene perché ci si rende conto di quante possibilità avrebbero avuto i protagonisti per modificare il loro destino, e di quante ne abbiamo noi, ogni giorno, per sfuggire ad esso.
Fa bene perché ti fa sentire pubblico davanti ad una rappresentazione teatrale pazzesca dell’animo umano.
Fa bene perché ti fa credere che l’amore a volte finisce, e diavolo!, va bene così.

Io ho fatto un pensiero che è stato come una preghiera, o un’altra storia immaginata da Amedeo: che lui, al termine della sua rocambolesca e piatta esistenza, possa fare i bagagli, e vivere, finalmente.

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